Anni ‘60/‘70: la nascita di Serra li Pozzi nel ricordo di Giovanni Congiatu…
di Emanuele Fancellu
D’imprenditori, balli e famosi toreri. C’è tutto questo e molto altro dietro El Cordobes, uno dei più famosi locali da ballo di Porto Torres. Quella balera nacque agli albori del miracolo economico della Sir. Il nascente petrolchimico, facendo affluire migliaia di operai e tecnici dal continente e dal resto dell’isola, trasformò in breve tempo un paese di emigranti in un Eldorado dove fermarsi a lavorare e mettere su famiglia. E dove inevitabilmente cercare momenti di svago e divertimento. Al tempo Porto Torres terminava all’altezza del vecchio cimitero, l’area del futuro rione di Serra li Pozzi era lontana dall’abitato. Ma la storia di El Cordobes è inestricabilmente legata a quella di Serra li Pozzi. E proprio da qui comincia il suo racconto Giovanni Congiatu, artefice di quella epica intrapresa insieme ai fratelli Salvatore e Battista Scarpa.
“L’area in cui sorge l’odierno quartiere di Serra li Pozzi era proprietà di due famiglie – esordisce Giovanni -. Piga, la mamma di Salvatore Bazzoni, era proprietaria della parte alta dove oggi si trova il residence il Melo fino alla Carlo Felice in due mappali separati, sia della parte dove c’è la casa della Contessa, la quale però aveva l’ingresso nel viottolo delle Vigne, tant’è che dove c’è l’edicola del rione c’è una parte non costruita allora ingresso della proprietà Piga. La Piga aveva venduto gran parte di quei terreni alla Contessa Altobelli. In mezzo s’insinuava un terreno dei Falchi, una famiglia di quattro sorelle ed un fratello, Vittorio, sempre allettato e poi morto. Una di queste quattro sorelle sposò un certo Gianuario Spanedda. C’era già stata una divisione della proprietà e la parte dove oggi c’è l’edicola era di Maria, la sorella sposatasi con Spanedda. Era un deserto” prosegue Giovanni Congiatu, “la sola cosa presente era una casupola di campagna dove abitavano i Loi, in seguito divenuti proprietari del terreno ancor oggi loro. Spanedda aveva alcune vacche e le portava a pascolare. Una mattina arrivò lì un certo Antonico Masia, fratello maggiore del Masia del distributore. Era un uomo già anziano, in pensione. Viveva a Genova e aveva lavorato nella ristorazione sui transatlantici. Aveva qualche soldo, non tantissimi e, siccome nel 1965 l’unica strada per la nascente zona industriale era la vecchia Carlo Felice, sulla quale passavano tutti i camion che poi attraversavano Corso Vittorio Emanuele, via Ponte Romano ed il ponte stesso, si era messo in testa di costruire lungo la strada un motel, un albergo-ristorante per camionisti. I due passeggiarono presso l’area in cui sorge l’odierno Hotel Libyssonis, e parlando in sardo Antonico disse: “ho una mezza idea di acquistare un pezzo di terreno”… “te lo diamo noi!” gli rispose Spanedda. Fecero subito il prezzo, un accordo verbale e andarono insieme dal notaio Maniga. “Io gli ho venduto duemila metri di terreno, ci fa l’atto?”… “occorre un geometra per fare il frazionamento” rispose il notaio”. Così i due si rivolsero a Giovanni Congiatu. “Vennero da me e gli proposi il frazionamento corrispondente alla parte non dove c’è l’ingresso del Libyssonis, ma quella che dà verso l’edicola” spiega Giovanni, “poi le due parti sono state riunite perché l’altra è stata venduta dall’altra sorella”.
Di fatto Serra li Pozzi nasce con questo accordo tra Gianuario Spanedda e Masia. “Quando iniziai a fare questi frazionamenti le altre sorelle Falchi aguzzarono l’ingegno. Non erano certo ricche, avevano una latteria in via Alfieri di fronte al Piccolo Forno di Corda e questi terreni, ma non rendevano nulla. La più giovane, signora Antonina, la quale dirigeva il tutto, venne da me dicendomi di volere vendere. Avevamo un quaderno e lì segnavamo “X ha dato 20mila lire, Y 30”… li convinsi a lasciare dieci metri per realizzare le strade, altrimenti non si sarebbe potuto accedere ai terreni” afferma Giovanni per proseguire: “io comprai a prezzo favorevole il terreno dove oggi sorge il Melo allora esteso anche all’attuale adiacente proprietà Scarpa. Allora non c’era lottizzazione perché questa era una zona agricola ed il Comune non avrebbe fatto alcunché. Serra li Pozzi è nato abusivamente perché i vari sindaci hanno lasciato fare e solo successivamente è stato fatto il piano”.
“Una prima bozza di progetto del Libyssonis l’ho fatta io però non sono andato avanti perché poi Masia si appoggiò a dei parenti di Sassari, i Gavini, costruttori edili che avevano il loro ingegnere. Per cui mi pagarono il dovuto e loro fecero il progetto dando inoltre il nome Libyssonis” rivela Giovanni. “Con l’acquisto di un’altra porzione di terreno poiché la prima era insufficiente, venne approvato il progetto e nacque l’hotel acquistato dopo varie vicende dagli Scarpa”.
Il quartiere inizia a sorgere. “Venivano da me e da altri per fare i progetti, ma io ne feci soltanto uno per Duilio Ginatempo, approvato perché aveva più di 4mila metri di terreno. Anche quello dove sorse El Cordobes fu approvato poiché aveva più di 4mila metri di terreno e non era un’abitazione, mentre tutti gli altri partirono abusivamente ed in seguito vennero sanati. Così nacque Serra li Pozzi”.
Anni ‘70: si balla a… El Cordobes!
La nascita di Serra li Pozzi, i tempi della prima discoteca turritana ricordati da Giovanni Congiatu, Vittorio Bellu, il DJ Luciano Di Fraia…
di Emanuele Fancellu
“L’idea di aprire una struttura in cui ballare nacque casualmente. Eravamo poco più che trentenni – premette Giovanni -, io ero proprietario del terreno, ed ero socio di Battista Scarpa in alcuni progetti, oltre a essere il suo progettista. Lui era un impresario edile e tra l’altro aveva avviato il progetto dell’Hotel La Casa, dove stavano molti trasfertisti. In via Alessandro Volta avevo un lotto di terreno e glielo vendetti in cambio di due appartamenti, in più gli cedetti la metà del terreno di Serra li Pozzi, quindi ne diventammo comproprietari. Un giorno stavamo andando a Cagliari perché avevamo da fare in Regione e ci dicemmo: “ma cosa ne facciamo di quel terreno?” Allora a Porto Torres si ballava solo a Carnevale al cinema, così mi venne questa idea, soci al 50% io e i fratelli Scarpa”.
Nascita di El Cordobes. “Il locale nacque non senza problemi – riprende Giovanni –. La politica locale frappose mille difficoltà, ma riuscii ad ottenere la concessione edilizia. Inoltre servivano tutte le concessioni della questura di Sassari ed anche in questo caso vi furono diverse contrarietà finché un prefetto non si ruppe le scatole della situazione. Avemmo fortuna, pur fra le avversità: non potevamo avere la luce e solo alla fine l’Enel ci allacciò; non potevamo avere un pozzo, pure fondamentale. Lo avevamo fatto scavare col battipalo, arrivati a una decina di metri – l’acqua si trovava a 50 metri – arrivò da Sassari la magistratura e ci bloccò. Avevamo già il locale ma non l’acqua. Come fare? Mi misi d’accordo con Duilio Ginatempo, era mio cliente. Fatto il progetto, dopo un paio di mesi ricevette minacce. Allora dovemmo comprare un lotto di terreno, poi venduto a Stefano Mannoni, relativamente vicino. Scavato il pozzo costruimmo una condotta e comprammo un motore potente per mandare l’acqua nel serbatoio, rimanendo così finché non passò la condotta. Una guerra!”
La struttura. “Lo stile era simile a quello di Mossa, come le case bianche in Gallura, allora si chiamava stile Mediterraneo. L’abbiamo costruito in blocchetti di cemento” dice Giovanni “. Era un locale abbastanza lussuoso all’inizio. La strada per arrivarci era tortuosa, però dentro avevamo fatto le cose per bene. C’era una pista esterna con i posti a sedere coperti, si apriva una parete scorrevole e l’orchestrina la poteva vedere e sentire chi ballava all’esterno e chi all’interno. In più chi voleva essere più riservato sentiva la musica anche giù. Quindi contemporaneamente si ballava all’esterno, all’interno e sotto. C’erano tre piste da ballo. Era un localino piccolo, ma noi siamo arrivati a farci entrare 400 persone, oggi ci avrebbero arrestato! Siamo stati i primi a mettere i maniglioni antipanico e tutte queste cose che ti dovevi fare arrivare da fuori perché qua non sapevano neanche cosa fossero! A Milano avevo comprato per 250mila lire un apparecchio elettronico realizzato da un artigiano che trasformava la musica con le luci. Uno strobo, allora non esisteva qua. Lo mettevo vicino ai dischi e le luci si accendevano a secondo dei bassi. Sono partito per un viaggio, era un periodo in cui lo gestiva Battista, e quando sono tornato l’apparecchio si era rotto. Battista, che era un genio dell’elettronica, fece: “vabbè, abbiamo sistemato tutto, l’abbiamo fatto mettere a posto!” L’insegna dell’hotel La Casa semplicemente si accendeva e spegneva. Aveva fatto sostituire questa cosa adottando lo stesso principio e mi disse: “questo è ancora più bello!”
L’inaugurazione. “Fissammo il giorno dell’inaugurazione, ci avevano rilasciato la licenza per gestire il locale pur tra mille difficoltà, ed avevamo già invitato tutte le autorità del paese – riprende Giovanni -. La mattina di quella giornata arrivarono dalla questura e mi ritirarono la licenza, ma inaugurammo lo stesso nonostante tutti gli ostacoli posti anche da chi prima era un amico”. Era il 20 novembre del 1969, e Giovanni racconta: “vennero in 300, la meglio gente di Porto Torres. Era tutto gratis per tutti, si esibì Gianni Davis, cantante dei Baronetti”.
Successo immediato. “Addirittura impiantammo una radio superiore come potenza persino a Radio del Golfo, si chiamava Radio del Cordobes. La gestivano dei liceali, ma un giorno chiusi tutto. Mi ero incazzato perché li avevo trovati che ballavano tutti!”. È uno dei mille aneddoti custoditi per sempre dalle mura di El Cordobes ricordati da Giovanni, il quale riprende a proposito dei primordi: “il successo fu immediato. Inizialmente, non essendo molto esperti, fissammo il biglietto d’ingresso con annessa consumazione a 800 lire, ma è evidente che un whisky pregiato è diverso da altre bevande, così in corso d’opera correggemmo questo ed altri errori. A parte il terreno, per costruire il tutto, per le spese d’inaugurazione, gli arredamenti, gli impianti, avevamo speso 18 milioni. Ma solo quattro mesi dopo, a fine carnevale, avevamo già incassato – non guadagnato – 13 milioni! Avevamo tante spese, ma fu un grandissimo successo. La clientela era numerosa, c’erano tanti trasfertisti e molti venivano spesso anche dai paesi vicini. A Carnevale poi si facevano i balli in maschera… Si riempì subito di gente perché a Porto Torres non c’era niente. Gli altri localini sono nati dopo, sulla scia un po’ di questo. Il primo direttore è stato un certo Paolo Muner, un ufficiale di Marina triestino messosi in congedo. Ha dei parenti qua. Era molto avanti rispetto ai tempi, scrupoloso e capace di proporre eleganti cocktail e bibite. Ebbero ruoli il fratello di Agostino Di Turco e lo stesso Agostino. Un cameriere è stato Stefano Cozzolino, altri di Sassari. Un barista molto bravo che oggi vive a Tempio era un certo Francolino: gli offrimmo di più e lo portammo via a Giovanni Acciaro dell’Offelleria. Fu il primo barista e siccome era piccolino dovemmo posizionare una pedana dietro il banco!”
Il nome. “C’era questo stile spagnolo… io avevo fatto dei viaggi in Spagna e avevo visto una corrida di Manuel Benitez noto El Cordobes in quanto originario di Cordoba. Mi venne così. È il nome di un famoso torero ancora vivente, era molto coraggioso e gli è andata sempre bene, affrontava il toro senza paura”.
Musica & balli. “Qualche volta la musica la mettevo anch’io, ma uno che è entrato da ragazzino è Luciano Di Fraia. Con Battista avevamo un accordo: “un anno lo gestisco io, un anno tu”. L’anno in cui l’ho gestito io mi facevo aiutare da Vittorio Bellu. Si metteva roba italiana oppure di fuori, quando andavamo in giro in Spagna portavo dischi spagnoli che qua non c’erano, me ne facevo portare da Roma – dice Giovanni -. Eravamo attrezzatissimi, sono spariti tutti cavolo! Avevamo cominciato con i 45 giri, c’erano sempre due piatti. Il primo impianto lo fece uno che c’era all’emiciclo Garibaldi a Sassari, l’altro Paurotto, era famoso a Sassari. Ai thè danzanti, nel pomeriggio, o la notte, al sabato e le domeniche si ballavano liscio, twist, alligalli, rock&roll con l’orchestra o coi dj armati di centinaia di 33 e 45 giri. Ogni tanto si invitava qualcuno. Una volta avevamo chiamato una specie di giocoliere argentino, si chiamava Teresito. Questo aveva delle palle piuttosto pesanti e gli diciamo di fare una prova. La fece nel seminterrato e se le sbatte sulla testa, a momenti ci rimaneva! Teresito…Ogni fine serata era annunciata da una sigla, una vecchia canzone spagnola, manco a dirlo intitolata “Cordobes”.
La fine del periodo d’oro. “C’è stato un incendio nel ‘76, salvammo la struttura ma non le parti in legno. Per rimetterlo a posto mi pare spendemmo 16 milioni e l’assicurazione ci diede solo sei milioni, quindi firmammo un bel po’ di cambiali e ci rimboccammo le maniche: venivo io a lavorare con Salvatore Scarpa, stavamo noi dietro il banco perché continuava a venire gente la domenica. Per un po’ lo gestimmo noi, dopodiché di punto in bianco ci fu la questione delle famose domeniche a piedi per via della crisi del Golfo e la domenica qui dovevano venire in macchina. Ci spaventammo e lo demmo in affitto” chiosa Giovanni. Da allora, cambi di gestione e periodi meno fortunati. Finché un giorno da Milano è tornata Laura, la piccola di casa Congiata, e la struttura ha ripreso vita divenendo un elegante ed ospitale residence. Il Melo!
El Cordobes, il ricordo di Vittorio Bellu
“Quando Giovanni, Battista e Salvatore aprirono il locale ebbero bisogno di un direttore. Si rivolsero ad un ufficiale della Marina che era in Capitaneria di porto a Porto Torres, appena congedatosi perché voleva sposare una ragazza locale. Si chiamava Muner. Rimase neanche un anno e quindi proposero a me la direzione. Accettai di buon grado. Di fatto ho gestito El Cordobes per un paio d’anni, fino al 1973 più o meno. Il locale andava a gonfie vele, in Sardegna era quello che lavorava più di tutti. L’ho scoperto dopo, lo si deduceva dagli importi settimanalmente versati alla Siae a Sassari. La domenica pomeriggio facevamo anche 500 presenze, arrivavano da tutta la provincia. La parabola discendente iniziò quando ad Alghero aprì il Mampea: Giovanni e gli Scarpa non furono in grado di rinnovarsi, peraltro loro avevano altre attività prioritarie, e pian piano ci fu il decadimento quando la bella gioventù scelse di andare ad Alghero, nonostante provassi ad organizzare qualcosa di diverso. Una sera vidi entrare due si-gnori eleganti. Mi chiesero: “vogliamo parlare col direttore”… “sono io”. Erano venuti appositamente da Roma per capire come mai un lo-cale con i numeri del nostro avesse avuto questo crollo. Glielo spiegai. Ne presero atto. Probabilmente pensavano che non staccassimo più i biglietti”. Parla tutto d’un fiato Vittorio Bellu nel ricordare la parabola di El Cordobes. “Il locale era molto caratteristico, in stile Mediterraneo. C’erano due sale al chiuso mentre la terza all’aperto apriva solo d’estate. C’era poca illuminazione specie nel seminterrato, dove c’erano zone simili a privè seppur aperte, e c’era anche un bar e dei tavolini con poltroncine e servizi. C’erano delle porte tipo saloon che fungevano da porte di sicurezza. Sulla pista esterna c’era una specie di pergolato che copriva sia la parte dove c’erano i tavolini con le poltroncine sia la pista. Anche le porte dei bagni erano tipo quelle dei saloon – riprende -. Abbiamo fatto anche qualche matrimonio, compleanno e festa. Si pagavano 500 lire d’ingresso al pomeriggio con una consumazione gratuita e si poteva bere ciò che si voleva. La domenica pomeriggio venivano molti giovanissimi, la sera era tutta un’altra clientela, molto più adulta. C’era una netta differenziazione. D’estate si apriva tutti i giorni”.
Vittorio rivela come per Carnevale si organizzasse il danzante per i bimbi, “ma lo spirito non si sentiva come Porto Torres era abituata. Prima si ballava soltanto a Carnevale al cinema Giordo e l’evento era molto più sentito, quando abbiamo aperto noi si ballava tutti i giorni. Non circolava assolutamente droga, ogni tanto si invitava l’orchestrina per proporre qualcosa di diverso. Veniva in particolare un gruppo d’estate, erano amici di Antonello Accioni e venivano dopo essere stati tutto il giorno al mare, stanchissimi. Durarono poco” dice ridendo Vittorio. “Antonello Accioni era mio cugino, era il barman del Cordobes – spiega -. L’avevo ingaggiato io. All’epoca frequentava la Costa Smeralda, con loro c’era anche Mia Martini, al tempo totalmente sconosciuta. Erano ragazzi che giravano e cercavano di barcamenarsi in Costa. In quel gruppo c’erano anche i gemelli Bussu, uno dei quali è diventato un mio dj, e tale Arrigoni, un gran bel ragazzo. Antonello disse che sarebbero venuti, sperava che venissero assunti tutti e quattro, ma potemmo prendere soltanto lui come barman e Bussu come dj. Loro portarono qualcosa di nuovo, erano molto conosciuti nell’ambiente sassarese e tanta gente li seguiva. Antonello era un tipo particolare, metteva degli stecchi profumati nella sala. All’epoca non lo faceva nessuno e profumavano l’ambiente. Si vestiva in modo molto stravagante: aveva i capelli lunghi sulle spalle ed un viso molto affilato, indossava la giacca da barman senza nulla sotto anche d’inverno, dei pantaloni da cavallerizzo con gli stivali sopra. Era un ragazzo particolare ma a posto”.
A proposito di feste e organizzazioni particolari, Vittorio rivela come abbia ospitato anche una sfilata di moda “organizzata da Paola Falchi che aveva un negozio al Corso: ebbe molto successo”; la “Festa del Pirata” – “un altro successo straordinario” -, e “Gli spaghetti a mezzanotte” a proposito dei quali racconta un aneddoto piccante: “una notte arrivarono a Porto Torres tutte le mignotte e i magnacci di Sassari, fu una serata molto divertente e loro si comportarono benissimo”.
Ci fu però anche un episodio molto spiacevole… “Già”, racconta Vittorio. “Una sera Giovanni non c’era e stavo per chiudere il locale alle due del mattino. Arrivarono sette balordi da Sorso, uno mise un piede nella porta e mi impedì di chiuderla. Entrarono dentro e di fatto tennero in ostaggio per un paio d’ore me e due camerieri. C’era anche la mia fidanzata ma riuscii a farla scappare via. Chiesero da bere e al momento del conto io sbagliai. Avrei dovuto dire loro “offre la ditta” per farli andare via, ma la loro arroganza mi spinse a dire “questo è il conto”. Così reagirono e lanciarono un bicchiere verso di me, lo scansai e ruppero un po’ di bottiglie. Cercai di divincolarmi, chiesi di soppiatto a Giammario, un aiuto barman prima dell’arrivo di Antonello, di chiamare i carabinieri, ma loro subodoravano la cosa e mi minacciarono pesantemente. Mi spaventai moltissimo. Erano degli avanzi di galera e la stessa notte, dopo avermi detto che sarebbero tornati a farci visita, fecero la stessa cosa a Platamona al bar di Ernesto con conseguenze peggiori. Lessi la cosa sulla Nuova Sardegna il giorno dopo”. “Una volta iniziata la decadenza me ne andai per esigenze lavorative. È stato un periodo fantastico e per me di rinascita. Quando mi proposero di fare il direttore ero infatti reduce da due anni internato in ospedale per una lesione polmonare. Quando mi dimisero il primario disse: “devi fare ogni anno uno o due mesi in montagna”. A Porto Torres ero disoccupato, spossato per il trattamento ricevuto avevo dato le dimissioni da un’azienda della zona industriale. Come uno stupido. Così accettai la proposta. In discoteca il fumo si tagliava a fette nonostante la presenza di due enormi aspiratori. Dissi: “se non mi ammalo adesso non mi ammalo più”. Ed infatti eccomi qua” chiosa con un sorriso Vittorio Bellu.
Luciano Di Fraia, l’esordio a El Cordobes
Quando si pensa ad un dj radiofonico turritano, il primo nome è senza dubbio quello di Luciano Di Fraia. Luciano è anche un grande animatore di feste in piazza ed è, soprattutto, uno dei dj più noti del mitico El Cordobes. Anzi, oggi possiamo dire senza dubbio il più celebre. El Cordobes per Luciano rappresenta un tuffo nei bei tempi della gioventù e, in particolare, l’esordio dietro la consolle. “Nei primi anni ‘70 ero studente, avrò avuto 17 o 18 anni, abitavo in via Balai di fronte all’edicola. Conoscevo e frequentavo i padroni dell’hotel La Casa, gli Scarpa, il quartier generale dove stavano parecchi trasfertisti della Sir” esordisce Luciano per proseguire: “al tempo c’era uno dei più grandi barman della provincia di Sassari, Antonello Accioni. La moglie di Antonello era la dj di El Cordobes ed in quel periodo era rimasta incinta del secondo figlio. Per cui dovette abdicare e la discoteca cercava un nuovo dj. Mi proposi: “vengo io””. Così inizia l’avventura dietro i piatti. “El Cordobes è stata la prima discoteca di Porto Torres e Serra li pozzi ancora non esisteva. Era lontano dalla città, le strade erano fangose d’inverno e polverose d’estate – afferma il dj -. Ma a Porto Torres c’era economia, giravano i soldi e la gente si voleva divertire. Venivano greffe di giovani da Sassari e dall’hinterland, oltre a tanti operai. Ero studente, volevo arrotondare. Si partiva in moto dall’hotel La Casa insieme ad Antonello Accioni e quando si arrivava c’erano già una ventina di macchine parcheggiate ad aspettarci. Si faceva sempre il pienone. C’erano tre piste da ballo, quella esterna andava fortissimo d’estate, aveva le poltrone ai lati e un canneto a copertura. D’estate si apriva ogni giorno, in inverno solo il sabato e la domenica”. Luciano, che si avvia al record di cinquant’anni dietro la consolle, prima di continuare sulla vita della discoteca svela un particolare su sé stesso: “quando mi proposi, ero digiuno sul mondo dei dj. Allora si usavano LP e 45giri. Lei inizialmente mi faceva la scaletta, mi diceva: “seguimi”. Mi suggerì di apporre dei colori sui dischi per memorizzare la scaletta ed imparare i titoli. Così pian piano imparai“.
A Platamona in estate si ballava al l’hotel Pontinental, frequentato da turisti, specie inglesi, “ma lì si danzava a bordo-piscina, si facevano feste private e si entrava solo con l’invito. Ho fatto il Dj lì qualche volta” rivela Luciano. A Porto Torres prima di El Cordobes si ballava solo a Carnevale al Cinema Giordo, dove andavano il Danzante e il Veglione. Un modello riproposto anche da El Cordobes. “Si faceva il danzante dalle 18 alle 21, poi ci si fermava un attimo, si pulivano i portacenere e si dava una rassettata generale, nel frattempo andavo a mangiare un boccone al volo all’hotel Libyssonis con Salvatore Scarpa e dalle 22 si riprendeva con il veglione serale fino a notte inoltrata” dice Luciano che continua: “la clientela era variegata, tanti venivano da fuori. Ad attirarli era solo ed esclusivamente una voglia di sano divertimento, non c’erano zuffe né droga, al massimo qualche scaramuccia. I periodi di maggiore frequenza erano il carnevale è l’estate, quando si organizzavano delle serate a tema in costume col camping Cristina. la musica che andava allora era la dance degli anni 70, i Village people, si ballavano il liscio, la samba, l’alligalli, il limbo, il rock’n’roll, I brani degli anni 60. io ero solo come dj, sono stato uno dei pionieri, e al tempo non si usava la musica dal vivo. una mia caratteristica però è sempre stato quello di proporre ad un certo punto della serata i lenti. i lenti piacevano e piacciono, la pista si riempiva. il lento tira sempre. diversi personaggi venivano in vacanza nel nord Sardegna e tra loro conobbi il grande dj di Radio Montecarlo Federico l’Olandese Volante, allora non ancora famosissimo, Il quale frequentava il camping Cristina e veniva a ballare a El Cordobes. È stata un’esperienza indimenticabile, la prima volta non si scorda mai”.
l ricordo di Angelo Acaccia ed Eugenio Cossu
A ricordare quella mitica discoteca sono anche due amici del Corriere, Angelo Acaccia ed Eugenio Cossu. “El Cordobes ha rappresentato per me il periodo più bello della giovinezza e permetteva di vivere la Porto Torres di quel periodo in tutto il suo splendore e benessere. Lavoravano tutti in città e chi non lo faceva vuol dire che non aveva voglia di lavorare, le famiglie erano numerose ed il benessere visibile. El Cordobes e tutte le attività del periodo ne erano la dimostrazione. I soldi li avevamo un po’ tutti, anche da studenti”. S’illuminano gli occhi ad Angelo Acaccia: mentre parla di El Cordobes, di fatto regala una fotografia, l’ennesima, di quanto fosse ricca, opulenta ed effervescente Porto Torres negli anni ’70. “Inizialmente era un night, si chiamava Night Club El Cordobes, ma ovviamente non era il night come lo si intende oggi” spiega Angelo per proseguire: “era molto bello perché il pomeriggio dalle 5 alle 8.30 funzionava come discoteca per i giovani, mentre la sera era frequentato da adulti. Si andava al fine settimana. C’è stato un periodo a metà anni ‘70 con una serie di manifestazioni e serate a tema. Ne ricordo una molto bella organizzata dai turisti del camping Cristina, partecipatissima. Ricordo due amici che lavoravano al bar, Antonello Accioni, bravissimo barman e persona squisita, e Giuseppe Nieddu, poi emigrato a Londra dove ha avviato un’attività di successo. In particolare poi ricordo che ci fu una bella sfilata nel 1974 dove sfilai anche io”.
“Ballavo un twist!” attacca ridendo Eugenio Cossu facendo riferimento alla fotografia in cui danza scatenato in primo piano. “El Cordobes è stato il punto di riferimento della nostra generazione fin da quando è stato aperto” dice Eugenio per continuare: “prima c’erano il Ciaobella e la Sei giorni del Cinema Giordo, perché quando Battista Scarpa e Giovanni hanno aperto El Cordobes è diventato la nostra seconda casa. Era una discoteca dove si stava assieme alle nostre amiche che erano autorizzate a venire. Era un bell’ambiente, di giovani, molto simpatico e gestito da persone molto serie. Non era permessa la cafonaggine, si andava a ballare in giacca e cravatta, incredibile ai giorni attuali. Si ballavano twist, alligalli, rock’n’roll ma più di tutti i lenti, la cosa più importante per fare mooolta amicizia con le nostre amiche!” scherza Eugenio prima della chiosa: “per la prima volta avevamo un locale di cui andare fieri anche nei confronti di Sassari. Era molto conosciuto, un punto di riferimento, ciò che manca oggi. La nostra generazione è stata la più fortunata nella storia eterna di Porto Torres perché c’era la sicurezza del lavoro, nessuna città a parte Cagliari aveva la nostra stessa sicurezza”.